1/3 – Immaginario dell’abitare
1/3 – Immaginario dell’abitare

1/3 – Immaginario dell’abitare

Abbiamo conosciuto Enrico durante l’edizione 2019 del festival IT.A.CÀ, anche grazie al libro “Sulla schiena del drago” (Pequod , 2018), e da lì non ci siamo più lasciati. Enrico è un dottorando dell’Università di Urbino e collabora con il Gruppo di ricerca Emidio di Treviri. Il suo progetto di ricerca di dottorato riguarda la relazione tra abitare, pratiche spaziali e temporalità nell’Alto Nera dopo i terremoti del 2016-2017. Oggi è parte della famiglia di C.A.S.A., una mente preziosa e sincera. Abbiamo chiesto ad Enrico di raccontare la sua esperienza ad Ussita perché per noi è testimone in modo vivo e appassionato che esistono tanti modi di approcciarsi all’Appennino. Il racconto è diviso in 3 puntate: Atterraggio, (Non Esserci), Tornare Partire Restare. Buona lettura.

Questo è un esplicito tributo *personale* all’ultimo anno che ho trascorso ai piedi di Monte Bove. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è assolutamente voluto perché, volenti o nolenti, hanno partecipato a questa cosa che in teoria dovrei definire uno “studio sul campo”. Su alcune parole troverai dei link: è la colonna sonora da accompagnare alla lettura di questo contributo.
E.


ATTERRAGGIO

Arrivo ad Ussita lunedì 20 gennaio 2020. Ho scelto un giorno come tanti. Non c’è una motivazione precisa, a parte il fatto che mi sembrava giusto incominciare di lunedì, AKA iniziare bene la settimana. Arrivo mi sistemo a casa, o almeno ci provo. L’impatto è abbastanza traumatico. Fa un freddo cane, freddissimo, perché qui (e nelle case adiacenti) non ci abita stabilmente nessuno da anni. Non riesco a fare niente oltre a piantarmi davanti al camino e aspettare (invano) che arrivi il caldo dei termosifoni. Quando esce realizzo che invece è molto più caldo fuori, cosa che contribuisce a confondermi ancora di più. Dentro o fuori? E se fuori, dove?
Non è che sono arrivato lunedì 20 gennaio perché avevo qualcosa da fare. Il piano è quello di passarci un anno qui, e penso che, in un anno, avoglia, di tempo ne ho. La motivazione ufficiale (il motivo valido) è quello di avviare lo studio sul campo del mio progetto di dottorato. La mia domanda di ricerca riguarda le forme abitative contemporanee nell’Alto Nera dopo il terremoto di ottobre 2016: che cosa significa, nella vita quotidiana, abitare qui dopo il sisma di ottobre 2016 che ha causato l’inagibilità di più del 90 per cento degli edifici? Quali sono più in generale i modi in cui ci si adatta alle forti trasformazioni (geologiche, urbanistiche, sociali) che sta vivendo questo territorio? In che modo le SAE e le altre strutture temporanee hanno impattato sulle relazioni sociali, sulle abitudini, sulle pratiche spaziali e sul territorio nel suo complesso?

Ho bisogno di tempo. Di giornate piene, in cui succedono un sacco di cose. Ma anche di giornate vuote, di noia, di tempi morti. Vivi. E lascia vivere. Ho bisogno di tempo non solo per gli obiettivi di ricerca che mi sono prefissato, ma soprattutto per adattarmi. In entrambi i casi un tempo “fisiologico”, che si tratta poi di articolare nella pratica con le routine, con l’organizzazione del pubblico e del privato. Un tempo denso, in cui si sperimenta: si provano, si trovano e si perdono abitudini. Guarda un po’, in sostanza si tratta degli stessi temi su cui faccio ricerca. L’iceberg contro cui ho appena impattato in questo lunedì 20 gennaio – dopo una lunga e pensosa rotta di collisione, che da Bologna mi ha portato a vivere qualche mese ad Ancona, per poi partire per Ussita – ha una grossa scritta sopra e la scritta dice “abitare”. Tornando dalla Piazza verso casa salgo per la strada in salita e all’altezza del Parco Giochi il Monte Bove diventa un iceberg, il suo profilo irregolare è bianco e azzurro, con venature grigie, un blocco enorme di ghiaccio, e sopra c’è scritto enorme: “ABITARE”. E sotto, scritto in piccolo, “e Mo so cazzi”.

All’inizio è tutto incommensurabile. Imparagonabile a qualsiasi altra cosa che abbia vissuto. Sembra che il bagaglio delle mie esperienze non contenga strumenti che mi possano concretamente aiutare nel quotidiano. Mi muovo un po’ a tentoni, cercando di non rompere niente. Nelle prime interviste, in realtà l’intervistato sono io. Ti sei trasferito? Ma da solo o con tua moglie? (Oddio ma che moglie?!) Ah quindi lavori al computer. Ma lavori o studi? Ah studi le SAE. Eeeeh c’è tanto da studiare, bello mia. Sei venuto a Ussita per fare la tesi? Beh, sicuramente, se questo ragazzo è venuto a Ussita per scrivere la tesi, alla fine uscirà una bellissima tesi.

A volte mi sento su un’isola deserta. Abituato alla città, esco di casa e non vedo nessuno, cammino mezz’ora e non incontro nessuno. Cerco un contatto con l’ambiente, con la natura. La mia “presa” abituale sulla montagna è quella di un cittadino: estatica, ammirata, occasionale. È una spinta che si esaurisce presto e realizzo che mi mancano diverse pezze d’appoggio per capire l’ambiente che mi circonda. Invece di andarmene a fine giornata, come fa un turista, resto, e il tempo comincia a rallentare, diventa una stanza vuota e senza mobili che mi disorienta: senza riferimenti, appoggi, direzioni e cose da prendere o da lasciare, suggerimenti. A tratti però mi sembra di aver ingranato la marcia. Avviene quasi sempre grazie alle persone con cui entro in relazione, in particolare Chiara e Patrizia, che mi aprono da subito le porte di Ussita. I momenti che passiamo insieme – nella sede di C.A.S.A., al bar di Bruno, Eugenia e Chiara (dove mi presentano praticamente a mezza Ussita), a casa di Patrizia oppure in giro a farmi conoscere la Valle dell’Ussita – sono la base su cui si costruisce la mia esperienza qui. In questi momenti riconosco il modo in cui scorre il tempo: il suono che fa è nuovo, mai sentito prima, ma ha un che di famigliare, mi fa ritrovare. A volte addirittura accelera un po’ troppo, senza che io faccia in tempo a capire perché, e ho l’impressione che qualcosa mi sia sfuggito, ma non riesco a raccogliere le idee.

Sono io l’isola deserta in mezzo al mare, in mezzo a un mare di montagne che nascondono tutto ciò per cui ho scelto di venire ad abitare qui. Mare in mezzo al mare: se non me la faccio finita di pensare al mare come farò ad ambientarmi in montagna?

Dopo un mese inizio a guadagnare faticosamente una specie di routine, grazie anche ai viaggi di andata e ritorno durante i quali rinsaldo le coordinate della mia “famiglia allargata”, tra Ancona e Bologna.
“Viaggiare stando fermi è il massimo”

E poi ritrovo il rettangolo verde.

Da inizio febbraio, infatti, due volte alla settimana percorro la strada di Macereto, con il panorama immerso nella notte, svalico le Arette e poi scendo a Fiastra per allenarmi con l’ASD Aquila. Mister Stefano e tutti i ragazzi mi accolgono da subito e mi fanno sentire parte della squadra, dandomi tantissima fiducia (che non mi aspettavo) e che mi dà una grande carica. La prima partita in cui sono convocato la pareggiamo nella lunga trasferta a Morrovalle, contro una delle prime in classifica: una di quelle squadre che può contare su giocatori d’esperienza, abituati al livello delle categorie superiori. La loro altezzosità (e la presunta superiorità tecnica) è messa in crisi sin dai primi minuti: scappiamo veloci centralmente e sulle fasce, con Joele e Lance che fanno venire il mal di testa alla difesa; filtriamo bene al centro, sia con Valerio e Andrea, che con gli esterni che fanno correre le punte; difendiamo rocciosi dietro, con Red e Cicca che danno un senso all’obbligo di mettere i parastinchi. Dalla panchina ci fomentiamo: la partita che stanno facendo i nostri compagni è il miglior invito a giocare a pallone, e quindi speriamo tutti di entrare presto in campo. Mister Stefano mi fa fare l’ultima mezz’ora. Entro abbastanza bene e ho anche una mezza occasione: Valerio mi mette una gran palla che non capisco, e non succede, ma se succede, sarei stato da solo a porta vuota. Vabbè, il gol all’esordio era anche troppo. Considerato che nei tre anni precedenti di campionato UISP bolognese non ho segnato mai. Sono la realizzazione dell’Anti-fantacalcio.

La seconda partita, in casa, parto da titolare, ed è una giornata epica. C’è il sole e fa caldissimo, ci sono i tifosi, tutto perfetto, “un pomeriggio ideale per giocare a pallone, Fabio”. Peccato che noi siamo contati: per colpa di defezioni e infortuni vari arriviamo al campo in 12. Ecco perché sono titolare, tra l’altro. Partita incredibile. Iniziamo controllando bene il campo e siamo incisivi davanti. A un certo punto Giordi lavora bene sulla destra e crossa forte in mezzo, all’altezza del vertice alto dell’area avversaria (parte del campo in cui tutto è reso molto più difficile da un avvallamento che provoca un dislivello notevole), Lance corregge in rete. Abbiamo molte altre occasioni nel primo tempo e per buona parte li schiacciamo nella loro metà campo. Gli avversari ogni tanto si affacciano sulla nostra area, complici alcune nostre disattenzioni, ma reggiamo bene e il primo tempo si chiude 1 a 0 per noi. All’inizio del secondo subiamo il pareggio e iniziamo a soffrire un po’, soprattutto sulla corsa i loro esterni. Anche davanti siamo meno pericolosi, la partita cominciano a farla loro. Noi ci mettiamo la grinta e la cattiveria, fin dove arriviamo. Proprio quando la loro spinta offensiva sembra stia per esaurirsi e noi ci riaffacciamo nella loro metà campo, l’arbitro dà un rigore un po’ generoso per loro. I nostri tifosi esplodono. C’è un signore dietro la porta che non smette di inveire e il portiere, Sandro, in segno di protesta, si gira di spalle mentre l’avversario prende la rincorsa dal dischetto, invitandolo ad un gesto di estrema nobiltà d’animo (ed estremamente raro): calciare deliberatamente la palla fuori, condividendo l’ingiustizia (ideale) della decisione arbitrale. L’avversario ovviamente calcia in porta e segna. Prendiamo anche il secondo gol. 2 a 1 per loro a pochissimi minuti dalla fine. Non abbiamo più niente da perdere, ci lanciamo avanti con la forza della disperazione. Lancio lungo sulla sinistra per Gioele che la va a prendere sulla linea di fondo, quando la palla sta quasi per uscire. La lavora bene e guarda dentro, stiamo arrivando ma non c’è nessuno libero. La mette in mezzo forte, in zona c’è Lance, che quasi ci arriva, ma il difensore copre. Sembra persa ma c’è un rimpallo, la palla va verso il portiere che non la trattiene, poi carambola sullo stinco del difensore che la rimanda verso la porta. Il portiere sorpreso non la prende. Pasticcio! La palla entra lentamente: 2 a 2. Delirio. Fischio finale. Delirio e Euforia.

———- AQUILA CALCIO SEI TUTTO PER ME, PRENDO LA SCIARPA E VENGO DA TE ———

Una prima in casa col botto. Ed è anche l’ultima partita che abbiamo giocato, visto che una settimana dopo arriva lo stop per il Coronavirus. Dopo la preparazione di settembre decidiamo, sensatamente e dopo una riunione interna in cui viene serenamente valutata la situazione, di non disputare l’unica partita che verrà concessa. A confermare la bontà della decisione, la settimana seguente arriverà lo stop ai campionati non agonistici che tutte le squadre e tutti gli appassionati di calcio si portano, dolorosamente, dietro fino ad oggi.

Nello stesso periodo, una mattina passo a prendere Renato e andiamo a fare una bellissima passeggiata-intervista nella sua Casali. Questa è una foto da quella mattina, che mi porto nel cuore.


Continua…
Immaginario dell’Abitare: (Non Esserci) – 2/3

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