VERSO USSITA, 12 giugno 2021
Il paesaggio del cratere, arrivando da fuori, ti prende inatteso e ti rimane dentro.
Case
Fra quelle crollate e quelle che non puoi dire tue,
non riesci a dare un nome all’assenza. (Infra)strutture.
Continuo a salire. Pieve Torina, Borgo Sant’Antonio, Visso. Passando cerco volti, rallento, cerco sguardi. Occhi. Abbasso il finestrino, cerco suoni e parole.
Non riesco senza fermarmi. Non riesco a fermarmi.
Giovanni Lindo Ferretti dice che comunità è tutto ciò che c’è fra l’assenza e la speranza. E’ la prima volta che non mi basta nemmeno questo. Pensavo di sapere tutto. Me ne affascinavo. Ora qui me ne vergogno.
Perdono
Arrivato a Ussita la strada diventa larghissima.
In piedi, fra un suo lato e l’altro, ne perdi la dimensione e il senso.
Immagini un passaggio di migranti,
dell’intera umanità e di tutta la sua storia,
di un uomo e una donna, soli l’uno all’altra,
oppure una città.
Provo ad attraversarla e mi ricredo ancora. E’ già piena di tutto ciò che non vedo. Il cammino è inspiegabilmente pesante. Vorrei fermarmi a ogni passo. Giacervi nell’attesa ma non so darle un nome e sentendo il mio, chiamato da qualcuno – non qui, non ora – non saprei riconoscermi. Non riuscirei a voltarmi.
Vuoti
Alzo lo sguardo e cerco rassicurazione nei Sibillini. Ne potrei raggiungerne la vetta e mettermi in salvo. Guardare giù. Vedere meglio. Respirare. Sotto di me avrei le uniche pareti rimaste in piedi. Reggono chiunque le sale, in ogni modo, ugualmente grate della fatica del passo o dello stupore dell’arrivo. Dovremmo essere tutti e sempre pareti così.
Abbasso nuovamente lo sguardo. Scendo. Non saranno la distanza, l’altezza o il sogno a rivelarmi risposte. Nessuno, da solo, potrebbe capirne i segni. Nemmeno per un attimo, se non in fuga, chiameresti casa ciò che è distante, alto o sogno. Nemmeno da lassù. Devi scendere per la stessa strada.
Nella tua vanità pensavi che le cime ti chiamassero, eletto. Non si sono fatte alte per te. Proteggono l’umiltà delle loro valli e chi ne ha intrapreso il viaggio.
Ritorno
Non c’è angolo di Ussita, se ci sei davvero dentro, dal quale tu possa vedere il paesaggio senza vederne insieme un crinale, una rovina, un ponteggio, un sasso antico, un container. Non sempre una persona a guardarti. La storia ci ha portato qui.
Ci vuole un tempo buono e paziente. Affinare la vista. Ascoltare meglio. Ricredersi. Affidarsi. Un gesto sconfinato di umiltà. Era già stato scritto. L’avevo letto distrattamente, come sempre. Non avevo sentito il peso delle sue parole. Non quello morale, di autorità o competenza. Quello selvatico, semplice, fisico. Se ci sei dentro ne senti il peso, dentro e sopra di te, nella carne e sulla schiena.
Corpi
Dallo sportello delle poste – mezzoufficio e mezzacasa – sento voci, ne vedo le persone. Non mi era mai capitato di vedere l’impiegato accompagnare una cliente, quasi per mano, uscendo in strada con lei. Dopo gli ultimi consigli per la richiesta che gli era stata posta, ne cerca altri e altre.
Vede un’amica e la saluta: “Ciao Chiara!”.
Un ufficiopersona, un’istituzioneabitante, un’insegnacheparla, che riconosce amici per strada. Cambia subito la scena. Come se il racconto avesse nuovamente inizio potendo attenderne la storia e i suoi personaggi.
Osservo da una panchina, poco distante, ne godo, come se insieme a loro e a mezzecase abitate, avessi ritrovato anche me. Posso nuovamente muovermi e parlare. Entrare in scena.
E’ Chiara che mi ha invitato a Ussita e mi muovo nella direzione delle voci – la direzione delle voci – affidandomi alla possibilità che sia proprio lei.
I paesi – se ne hai rispetto – ti confermano quasi sempre questa fiducia e, se smentita, ti guideranno altrove per il tuo bisogno. La stessa alla quale si affida lei chiamandomi subito per nome alla sola mia comparsa, senza la certezza che sia io.
Nei paesi – se attendi qualcuno – ami questo rischio e lo puoi correre sempre.
Voci
Al termine della giornata, per un bel gioco istintivo di gratitudini, ho conosciuto Moira – fotografa di esplorazione introspettiva – e questa conversazione su incontri, riconoscimenti e rappresentazione l’ho ritrovata nel suo mondo. Posare lo sguardo per vedere meglio e dal di dentro. (Come ho fatto a non citare Strand al convegno?)
Obiettivi
Nelle terre piene e agglomerate ti fidi solo di un macro: il rapporto tende ad essere stretto su ciò di cui ti occupi o ti occupa. Senza referenze fidate e note non puoi fidarti di chi o cosa ti si pone di fronte.
Nelle terre di mezzo – sempre più spazi inanimati di attraversamento e sosta – che sfuggono alla loro storia cercando altrove il loro senso – cerchi orizzonti diversi con uno zoom pesante ed estraniante.
Nelle terre rarefatte e alte potresti usare tutti gli obiettivi, per il desiderio che ti viene di conoscere subito da vicino con un macro il segreto che vuole implicazione o la possibilità di accorciare con uno zoom gli spazi immensi che ti si presentano davanti. Solo qui, però, puoi osare subito – e forse devi – un grandangolo. Potrà essere per i paesaggi ampi da contenere, ma con più gioia ancora per le piazze, gli incontri, le scene quotidiane. Anche un ritratto dovrai allargarlo a ciò che ha attorno per capirlo; tenere un tempo lungo di esposizione per vederne i movimenti; mettere a fuoco cosa lo precede o ne è sfondo. In fotografia si dice profondità. Solo così potrai chiamare per nome chi stai inquadrando, essendone, a tua volta, riconosciuto.
Vite
Vite. Tante. Quante mai avrei pensato di trovarne a Ussita (nel cratere). Ancora prima, passando di paese in paese, mentre la raggiungevo. Ancora prima, lungo le strade di tutto l’appennino e in ogni deserto. Convocate tutte, la mia e la loro, inaspettatamente pagine dello stesso libro. Una storia.
Gli shock del territorio confondono, strappano e dividono. Come quando un vento improvviso ti coglie a sistemare le pagine non rilegate di una storia ancora da finire. (La storia è sempre ancora da finire e se la trovi già rilegata, preoccupatene)
Un vento tanto impetuoso e bizzarro da farle volare ognuna distante dall’altra, in posti diversi, orfane di quella che la precedevano senza un figlio o una figlia a seguirle. Pagine strappate e sospese, in mani e case diverse,
finiscono gettate da chi ha dimenticato, scartate da chi è rassegnato, aggiunte posticce ad altri libri da chi non ne ha vissuto, stropicciate e sudate da chi ne cerca il racconto.
Storie
Macerie naturali e palizzate artificiali. Nella storia dell’appennino è andata spesso diversamente e forse anche qui, malgrado tutto, potremmo rileggere questo paesaggio mescolandone i luoghicomuni. L’appennino, di dentro, narra macerie artificiali e palizzate naturali. Una (ri)creazione a immagine e somiglianza d’altri. Ussita, 12 giugno 2021. Inizia il racconto.
Come se il vento che impediva il tuo passaggio, rendendo pesante il tuo passo, avesse girato il suo verso portando alla piazzetta della Posta tutte le pagine con coloro che le stringevano ancora fra le mani. Un tempo e uno spazio: dubbio dei rassegnati, gioia dei dimentichi, stupore degli scombinati, conforto degli stropicciati. Noi. Come se ci fossimo sempre conosciuti, come se ci stessimo cercando, come se ne attendessimo la forza, la gioia e, ancora, la meraviglia.
Il comparire di vite e storie presenti porta le risposte ed è la loro fragilità – ora – a consentirne il riconoscimento. Ci consola e ci conferma. Qui ci possiamo dire la verità, fuori dal flusso, lontani dal mito. Fragile è il futuro, fragile è la conoscenza e tutta la nostra intelligenza. Fragile di noi anche la speranza, se la creazione stessa è detta incompleta dal suo Creatore. Qui, finalmente, siamo solo anime e corpi, insieme già urbanità, i Sibillini attorno, anche le case.
Patrizia, Marta, Renato, Alessandro, Moira, Augusto, Paolo che erano già lì. Raffaele, Luca, l’altra Marta, Alessandra, Andrea, Filippo che sono tornati. Giovanni, arrivato come sempre per ultimo. Insieme possiamo dire casa e città, anche lì e perché lì. Mettere mano al crollo. Ovunque. Era il libro a mancare, le sue pagine. In questo tempo e in questo spazio – sempre e ovunque – è (ri)conoscibile.
Il crollo delle case a Ussita, Succiso, Cerreto, Dossena, Milo, Pizzoferrato, Tiriolo, Danta è una distrazione distopica artificiale, così come la scossa improvvisa. E’ sempre improvvisa la scossa, quando ti coglie o quando la cogli. Vite d’appennino vengono giù da cinquant’anni, insieme al desiderio di proseguire una storia comune, di urbanità, di un figlio e una figlia, di dare un nome alle cose e di trovare il proprio, di partecipare alla creazione che ci attende.
Figli
Corpi, anime, ambiente, urbanità. La scossa è quella della storia. Nessuna struttura poteva reggere a lungo senza avere dentro corpi e anime, sopra e attorno un ambiente, una città alla quale si vuole dare nuovamente un nome.
Opere
Le opere di Chiara, che ne è metamorfosi. Patrizia, che ne abita il tempo e ne tiene vivi gli spazi. Marta, che ci tiene dentro le persone. Renato, che ne ricorda l’amore. Alessandro, che ne ha il coraggio e il nome. Moira, che ci mette gli occhi e te ne dona la vista. Augusto e Paolo, che ne sono storia e racconto. Poi Raffaele e Giulia, che ci andrebbero in guerra. Luca, l’altra Marta, Alessandra, Andrea, Filippo e Giovanni che se ne danno il nome per averne uno al quale potere voltarsi. Di tutti gli altri dovremmo disegnare i volti e riempirne le pagine. La provocazione definitiva.
Pieni
La sera non si riusciva a partire. Tutto ci tratteneva. Fili. Palizzate naturali. Piattaforme sul magma delle macerie.
I piedi non affondano più infinitamente. Il tuo passo può procedere all’altro.
“Ci vorrebbe una rete”, dice Alessandro. Ci guardiamo. Sorridiamo insieme.
“Lo siamo”.
Grazie C.A.S.A. Questa è un’azione.
Giovanni Teneggi è nato a Rosano (sul versante reggiano dell’Appennino Tosco Emiliano) da papà Afro e mamma Luciana. Vive a Castelnovo ne’ Monti (RE). È direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia. Da anni studia e racconta il fenomeno delle “cooperative di comunità”, un’originale forma di organizzazione sociale, che si sta diffondendo in tutta la Penisola. È stato invitato ad Ussita sabato 12 giugno 2021 per il convegno “Respirare il nostro tempo” (festival IT.A.CÀ). Sappiamo che tornerà.
La foto dell’articolo è di Moira Spitoni.
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