IT.A.CÁ, 25 aprile 2019, Ussita
Resistenza e restanza sono due termini che s’attagliano molto bene alla fotografia e in particolare alla fotografia sociale. Tra tutti i media il fotografico è quello che intrattiene una strettissima e fedele relazione con la realtà. Non a caso è una pratica post illuminista e per molti è più una scienza che un’arte. Tanto le informazioni presenti sulla superficie delle fotografie quanto quelle taciute sono comunque un veicolo ineludibile per la conoscenza del reale. Perché “la foto – diceva Barthes – è un’emanazione del referente”, una radiografia del mondo. Nel momento in cui rifugge dal vezzo dell’estetizzazione, della spettacolarizzazione e dell’arte, la fotografia soprattutto quando è accompagnata da una didascalia è un potente strumento di resistenza di fronte ai tentativi di costruzione e revisione di ciò che è stato da parte del pensiero dominante. Perché nella sua natura c’è sempre la trasmissione di una forma di verità che resiste in un mondo contaminato dalle apparenze evanescenti del mainstream.
Se MAI+ Il sisma nel centro Italia tra volti e macerie a distanza di oltre due anni è ancora così attuale è perché si è inserito all’interno delle falle del sistema dell’informazione, che con i suoi cliché narrativi e stereotipi ha dato una rappresentazione spersonalizzata del sisma. Protagonista dei servizi era il terremoto e la sua incredibile capacità distruttiva che si era abbattuta su case, chiese e opere architettoniche. Non la popolazione dell’Appennino smarrita e dispersa, costretta a ridefinire la propria identità nello spazio di pochi secondi. Perché un’abitazione non è un modulo abitativo: una casa custodisce esperienze affettive e un paese coi suoi abitanti conservano identità complesse.
Iniziando a scattare tre giorni prima della terribile scossa 6.5 pensavo di documentare la fase peggiore per le tante persone terremotate. Il trauma psicologico e sociale di chi prendeva quel che poteva e scappava in auto verso la costa. Così come di chi scendeva dagli autobus per ritrovarsi nel parcheggio di un camping estivo con in mano una busta di plastica piena di quel poco che era riuscito a portare con sé. In quel momento non potevo immaginare che stavo fotografando solo il primissimo atto di un lungo e faticoso percorso di dolore. Ma anche di progressiva demolizione psicologica della popolazione colpita dal sisma. L’hanno chiamata strategia dell’abbandono: dopo quasi due anni e mezzo di lungaggini burocratiche, ritardi insostenibili nella costruzione delle SAE e insipienza politica la popolazione si ritrova a fare i conti con un senso di smarrimento e una totale sfiducia nei confronti delle istituzioni. Ecco allora che l’impressione di moltissimi osservatori è che il terremoto venga usato come pretesto per abbandonare definitivamente a se stesso l’intero territorio montano. E consentire ai nuovi padroni del vapore di farvi affari. È vero che in questi territori era già in atto un deterioramento del tessuto sociale dettato dallo spopolamento e dall’invecchiamento dei residenti, tuttavia insistevano anche realtà produttive consolidate connesse all’agricoltura e alla zootecnica. Così come lentamente si stava strutturando un sistema d’accoglienza turistica di alta qualità. Coloro che avevano deciso di restare sugli Appennini e chi, addirittura, aveva preso la decisione di trasferirsi su queste latitudini col desiderio di ridisegnare il proprio futuro, erano mossi da un grande entusiasmo e da un incredibile senso di appartenenza che ora vengono messi duramente alla prova. Mai come adesso è necessario vigilare sulle decisioni verticistiche riguardo il rilancio e lo sviluppo dell’area montana, ma soprattutto occorre sostenere tutti coloro che quassù vogliono continuare a vivere e a mantenere vive aziende, culture e tradizioni.
Ecco allora l’importanza della restanza. Per il professor Vito Teti “il villaggio e la comunità vanno ricostruiti giorno per giorno, anche con gli scarti, schegge e i frammenti del passato. Raccogliendo cocci e ricomporli tornando sui propri passi. Con la volontà di guardare la bellezza ma anche le macerie. Non sono concessi autocompiacimento autoesaltazione ma neppure afflizione”. E che cosa è la fotografia se non uno scarto del passato. Un frammento concreto del passato in
cui sono catalizzati ricordi ed emozioni. Il portato emozionale di una fotografia non è inerte, muta nel tempo, si vivifica ogni volta che viene osservata da occhi nuovi, ogni volta che passa di mano in mano e si sposta da un luogo e l’altro.
Attraverso le fotografie riconosciamo quel che eravamo, ma riviviamo anche la gioia per le nostre vittorie e la tristezza per le battute d’arresto. E, soprattutto, di fronte ad una fotografia quelle emozioni che all’epoca sentivamo terribilmente insostenibili e soffocanti ci appaiono degli incidenti di percorso, duri quanto vuoi ma in fondo sopportabili. La fotografia, quasi pedagogicamente, è lì a ricordarci che ce l’abbiamo fatta, abbiamo resistito e ce la possiamo fare, resisteremo ancora. Spero che le mie fotografie siano uno degli strumenti della vostra restanza.
Claudio Colotti (fotogiornalista, autore della mostra MAI+ Il sisma nel centro Italia tra volti e macerie)
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